martedì 23 marzo 2010

da "Addio" di Francesco Guccini

[...]

io dico addio a tutte le vostre cazzate infinite,
riflettori e paillettes delle televisioni,
alle urla scomposte di politicanti professionisti,
a quelle vostre glorie vuote da coglioni...

E dico addio al mondo inventato del villaggio globale,
alle diete per mantenersi in forma smagliante
a chi parla sempre di un futuro trionfale
e ad ogni impresa di questo secolo trionfante,
alle magie di moda delle religioni orientali
che da noi nascondono soltanto vuoti di pensiero,
ai personaggi cicaleggianti dei talk-show
che squittiscono ad ogni ora un nuovo "vero"
alle futilità pettegole sui calciatori miliardari,
alle loro modelle senza umanità
alle sempiterne belle in gara sui calendari,
a chi dimentica o ignora l'umiltà...

[...]

Io dico addio a chi si nasconde con protervia dietro a un dito,
a chi non sceglie, non prende parte, non si sbilancia
o sceglie a caso per i tiramenti del momento
curando però sempre di riempirsi la pancia
e dico addio alle commedie tragiche dei sepolcri imbiancati,
ai ceroni ed ai parrucchini per signore,
alle lampade e tinture degli eterni non invecchiati,
al mondo fatto di ruffiani e di puttane a ore,
a chi si dichiara di sinistra e democratico
però è amico di tutti perché non si sa mai,
e poi anche chi è di destra ha i suoi pregi e gli è simpatico
ed è anche fondamentalista per evitare guai
a questo orizzonte di affaristi e d'imbroglioni
fatto di nebbia, pieno di sembrare,
ricolmo di nani, ballerine e canzoni,
di lotterie, l'unica fede il cui sperare...

mercoledì 17 marzo 2010

da “IL PORTO DEI DESTINI SOSPESI”

“Scriveva poesie”

Zaher aveva sedici anni, ma aveva imparato presto a mentire alla polizia, dichiarava di averne solo tredici, perché per i ragazzini più giovani, una volta oltrepassata la frontiera dell'Europa, è più semplice trovare assistenza presso le comunità di accoglienza per minori gestite da associazioni o dalle istituzioni pubbliche.
Nelle tasche dei pantaloni viaggiavano con lui i compagni di un'infanzia che gli era stata negata: un uccellino bianco e nero, un leone, una giraffa e un'alce, statuette di plastica che portava sempre con sé e che gli permettevano di sfuggire ogni tanto da questo mondo crudele che costringe i ragazzini come lui a diventare adulti all'improvviso, quando decidono di lasciare la famiglia, gli amici, la propria terra e a rischiare la loro stessa vita in viaggi disperati e difficilissimi, che troppo spesso terminano con morti assurde e silenziose.

Zaher fuggiva da una guerra. Un hazara, afghano di Mazar-i-Sharif, fuggiva dalla pulizia etnica perpetrata nei confronti del suo popolo. Si era trasferito in Iran e aveva trovato lavoro come saldatore, da lì era partito alla volta della Turchia e di nuovo fino in Grecia. Lì capisce che non potrà restare ancora molto al centro per minori, che in Grecia non c'è futuro per gente come lui, clandestini del mondo, e guarda all'Europa come a una terra promessa, un grande sogno da cui lo separa solo una notte di navigazione e qualche chilometro da trascorrere appeso ai semiassi di un camion, un'impresa che gli sembra decisamente affrontabile se paragonata a tutte le traversie ed i pericoli dai quali fino a quel momento è riuscito a scappare.
Oltre al suo piccolo zoo, in tasca tiene sempre anche un taccuino, sul quale sono ancora appuntati schizzi e misure di quando faceva il saldatore, e su cui ora riporta versi di bellissime poesie in persiano antico.

Giardiniere, apri la porta del giardino
Io non sono un ladro di fiori
Io stesso mi son fatto rosa.

Nel registro di bordo della nave su cui viaggia Zaher Rezai il 9 dicembre 2008, non ci sono tracce del suo passaggio. C'è riuscito, ha passato tutti i controlli, ce l'ha quasi fatta. Mancano sette chilometri alla libertà. E l'ironia della sorte vuole che buona parte di quei sette chilometri siano costituiti da un ponte che della Libertà porta proprio il nome, e che separa virtualmente la frontiera, il mare, la Grecia, il suo passato, dalla terraferma, l'Italia, l'Europa, il futuro.

Questo corpo così assetato e stanco
forse non arriverà fino all'acqua del mare.
Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino
Ma promettimi, Dio, che non lascerai finisca la primavera.
Oh mio caro, che dolore riserva l'attimo dell'attesa
Ma promettimi, Dio, che non lascerai finisca la primavera.

Zaher è appeso a un metro e mezzo dal cemento che scorre impazzito sotto di lui, fa freddo ed è esausto. Intorno a lui luccicano le piccole onde scolpite dalla brezza marina della laguna che come una madre premurosa, stringe Venezia e le sue isole in un tenero abbraccio, quasi a volerle proteggere dalle insidie del mare aperto. Ma Zaher non riesce a vedere altro che l'asfalto nero, freddo e bagnato scorrere veloce sotto di sé, troppo veloce, troppo vicino. La nave ha attraccato con un ulteriore ritardo di dodici ore su un viaggio che già di per sé ne prevede quarantotto. La cintura alla quale è assicurato all'autocarro dà segni di cedimento, o forse è lui stesso che la allenta, quando in via Orlanda il semaforo è rosso e a Zaher sembra proprio il momento adatto per saltare. Per concludere il viaggio. E così sarà. Le ultime frasi riportate sul suo taccuino sembrano proprio voler celebrare un inno alla vita:

Tanto ho navigato, notte e giorno, sulla barca del tuo amore
che o riuscirò in fine ad amarti o morirò annegato.
Giardiniere, apri la porta del giardino;
io non sono un ladro di fiori,
io stesso mi sono fatto rosa,
non vado in cerca di un fiore qualsiasi.

giovedì 11 marzo 2010

da "porci con le ali" di Marco Radice Lombardo e Lidia Ravera

"Piccolo naso, occhi mutevoli, nell'arco che va dal grigio al nero passando per l'incazzato"

martedì 9 marzo 2010

da "Solo andata" di Erri De Luca

Vogliono rimandarci, chiedono dove stavo prima,
quale posto lasciato alle spalle.

Mi giro di schiena, questo è tutto l’indietro che mi resta,
si offendono, per loro non è la seconda faccia.

Noi onoriamo la nuca, da dove si precipita il futuro
che non sta davanti, ma arriva da dietro e scavalca.

Devi tornare a casa. Ne avessi una, restavo.
Nemmeno gli assassini ci rivogliono.

Rimetteteci sopra la barca, scacciateci da uomini,
non siamo bagagli da spedire e tu nord non sei degno di te stesso.

La nostra terra inghiottita non esiste sotto i piedi,
nostra patria è una barca, un guscio aperto.

Potete respingere, non riportare indietro,
è cenere dispersa la partenza, noi siamo solo andata.

venerdì 5 marzo 2010

Ghandi

«Questo pianeta ha abbastanza risorse per tutti, ma non ne ha abbastanza per l'avidità di pochi».

Ghandi

mercoledì 3 marzo 2010

Cirano di Bergerac

Dalla scena VIII del Cirano di Bergerac di Rostand

LE BRET: Se tu provassi a mettere un po’ da parte questo tuo animo da moschettiere, Cirano, il successo e gli onori ti…

CIRANO: E che dovrei fare? Cercarmi un protettore? Trovarmi un padrone? Arrampicarmi oscuramente, con astuzia, come l’edera che lecca la scorza del tronco cui si avvinghia, invece di salire con forza?

No, grazie.

Dedicare versi ai ricchi come qualsiasi opportunista? Fare il buffone nella speranza vile di veder spuntare sulle labbra di un ministro un sorriso che non sia minaccioso?

No, grazie.

Mandar giù rospi tutti i giorni? Logorarmi lo stomaco? Sbucciarmi le ginocchia per il troppo genuflettermi? Specializzarmi nel piegare la schiena?

No, grazie.

Accarezzare la capra con una mano e annaffiare il cavolo con l’altra? Avere sempre a portata di mano il turibolo dell’incenso in attesa di potenti da compiacere?

No, grazie.

Progredire di girone in girone, diventare un piccolo, grande uomo da salotto, navigare avendo per remi madrigali e per vele sospiri di vecchie signore?

No, grazie.

Farmi pubblicare dei versi a pagamento dall’editore Sercy?

No, grazie.

Farmi eleggere papa da un concilio di dementi in una bettola?

No, grazie.

Affaticarmi per farmi un nome con un sonetto invece di scriverne degli altri? No, grazie.
Trovare intelligente un imbecille? Essere angosciato dai giornali e vivere nella speranza di vedere il mio nome apparire sulle riviste letterarie?

No, grazie.

Vivere di calcolo, ansia, paura? Anteporre i doveri mondani alla poesia, scrivere suppliche, farmi presentare?

No, grazie. Grazie, grazie, grazie, no!

Ma invece… cantare, ridere, sognare, essere indipendente, libero, guardare in faccia la gente e parlare come mi pare, mettermi – se ne ho voglia – il cappello di traverso, battermi per un sì per un no o fare un verso!
Lavorare senza curarsi della gloria e della fortuna alla cronaca di un viaggio cui si pensa da tempo, magari nella luna!
Non scrivere mai nulla che non sia nato davvero dentro di te! Appagarsi soltanto dei frutti, dei fiori e delle foglie che si sono colte nel proprio giardino con le proprie stesse mani!
Poi, se per caso ti arriva anche il successo, non dovere nulla a Cesare, prendere tutto il merito per te solo e, disprezzando l’edera, salire – anche senz’essere né una quercia né un tiglio – salire, magari poco, ma salire da solo!

martedì 2 marzo 2010

"Invictus" di W.E. Henley


Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.


In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbow'd.



Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.



It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate:
I am the captain of my soul.



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Dal profondo della notte che mi avvolge
buia come il pozzo più profondo che va da un polo all'altro
ringrazio quali che siano gli dei
per la mia inconquistabile anima.

Nella morsa delle circostanze,
non mi sono tirato indietro, né ho pianto.
Sotto i colpi d'ascia della sorte,
il mio capo sanguina, ma non si china.

Più in là, questo luogo di rabbia e lacrime
appare minaccioso ma l'orrore delle ombre
e anche la minaccia degli anni
non mi trova e non mi troverà spaventato.

Non importa quanto sia stretta la porta
quanto piena di castighi la vita.
Io sono il padrone del mio destino.
Io sono il capitano della mia anima»