mercoledì 17 marzo 2010

da “IL PORTO DEI DESTINI SOSPESI”

“Scriveva poesie”

Zaher aveva sedici anni, ma aveva imparato presto a mentire alla polizia, dichiarava di averne solo tredici, perché per i ragazzini più giovani, una volta oltrepassata la frontiera dell'Europa, è più semplice trovare assistenza presso le comunità di accoglienza per minori gestite da associazioni o dalle istituzioni pubbliche.
Nelle tasche dei pantaloni viaggiavano con lui i compagni di un'infanzia che gli era stata negata: un uccellino bianco e nero, un leone, una giraffa e un'alce, statuette di plastica che portava sempre con sé e che gli permettevano di sfuggire ogni tanto da questo mondo crudele che costringe i ragazzini come lui a diventare adulti all'improvviso, quando decidono di lasciare la famiglia, gli amici, la propria terra e a rischiare la loro stessa vita in viaggi disperati e difficilissimi, che troppo spesso terminano con morti assurde e silenziose.

Zaher fuggiva da una guerra. Un hazara, afghano di Mazar-i-Sharif, fuggiva dalla pulizia etnica perpetrata nei confronti del suo popolo. Si era trasferito in Iran e aveva trovato lavoro come saldatore, da lì era partito alla volta della Turchia e di nuovo fino in Grecia. Lì capisce che non potrà restare ancora molto al centro per minori, che in Grecia non c'è futuro per gente come lui, clandestini del mondo, e guarda all'Europa come a una terra promessa, un grande sogno da cui lo separa solo una notte di navigazione e qualche chilometro da trascorrere appeso ai semiassi di un camion, un'impresa che gli sembra decisamente affrontabile se paragonata a tutte le traversie ed i pericoli dai quali fino a quel momento è riuscito a scappare.
Oltre al suo piccolo zoo, in tasca tiene sempre anche un taccuino, sul quale sono ancora appuntati schizzi e misure di quando faceva il saldatore, e su cui ora riporta versi di bellissime poesie in persiano antico.

Giardiniere, apri la porta del giardino
Io non sono un ladro di fiori
Io stesso mi son fatto rosa.

Nel registro di bordo della nave su cui viaggia Zaher Rezai il 9 dicembre 2008, non ci sono tracce del suo passaggio. C'è riuscito, ha passato tutti i controlli, ce l'ha quasi fatta. Mancano sette chilometri alla libertà. E l'ironia della sorte vuole che buona parte di quei sette chilometri siano costituiti da un ponte che della Libertà porta proprio il nome, e che separa virtualmente la frontiera, il mare, la Grecia, il suo passato, dalla terraferma, l'Italia, l'Europa, il futuro.

Questo corpo così assetato e stanco
forse non arriverà fino all'acqua del mare.
Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino
Ma promettimi, Dio, che non lascerai finisca la primavera.
Oh mio caro, che dolore riserva l'attimo dell'attesa
Ma promettimi, Dio, che non lascerai finisca la primavera.

Zaher è appeso a un metro e mezzo dal cemento che scorre impazzito sotto di lui, fa freddo ed è esausto. Intorno a lui luccicano le piccole onde scolpite dalla brezza marina della laguna che come una madre premurosa, stringe Venezia e le sue isole in un tenero abbraccio, quasi a volerle proteggere dalle insidie del mare aperto. Ma Zaher non riesce a vedere altro che l'asfalto nero, freddo e bagnato scorrere veloce sotto di sé, troppo veloce, troppo vicino. La nave ha attraccato con un ulteriore ritardo di dodici ore su un viaggio che già di per sé ne prevede quarantotto. La cintura alla quale è assicurato all'autocarro dà segni di cedimento, o forse è lui stesso che la allenta, quando in via Orlanda il semaforo è rosso e a Zaher sembra proprio il momento adatto per saltare. Per concludere il viaggio. E così sarà. Le ultime frasi riportate sul suo taccuino sembrano proprio voler celebrare un inno alla vita:

Tanto ho navigato, notte e giorno, sulla barca del tuo amore
che o riuscirò in fine ad amarti o morirò annegato.
Giardiniere, apri la porta del giardino;
io non sono un ladro di fiori,
io stesso mi sono fatto rosa,
non vado in cerca di un fiore qualsiasi.

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