lunedì 25 ottobre 2010

da "Saggio sull'arte di strisciare ad uso dei cortigiani" di Paul H. D. Holbach

Il cortigiano ha diverse anime. A volte è insolente e a volte è vile; può dar prova della più squallida avarizia e della più insaziabile avidità così come di un’estrema magnanimità, di una grande audacia come di una codardia vergognosa, di un’impertinente arroganza e della correttezza più calcolata; in poche parole egli è un Proteo, un Giano Bifronte o ancor meglio un Dio indiano raffigurato con sette volti differenti (…).
I filosofi, che spesso sono di cattivo umore, considerano in verità il mestiere del cortigiano come vile, infame, pari a quello di un avvelenatore. I popoli ingrati non percepiscono la reale portata degli obblighi propri di questi uomini generosi che, pur di garantire il buon umore del Sovrano, si votano alla noia, si sacrificano per i suoi capricci, immolano in suo nome onore, onestà, amor proprio, pudore e rimorsi; ma come fanno quegli ottusi a non rendersi conto del costo di tanti sacrifici? Non pensano al prezzo da pagare per essere un buon cortigiano? Qualunque sia la forza d’animo di cui si è dotati, per quanto la coscienza possa essere corazzata con l’abitudine a disprezzare la virtù e a calpestare l’onestà, per gli uomini ordinari resta comunque penoso soffocare nel cuore il grido della ragione. Soltanto il cortigiano riesce a tacitare questa voce inopportuna; lui solo è capace di un così nobile sforzo (…).
Un perfetto cortigiano è senza ombra di dubbio il più sorprendente degli uomini. Smettiamo di parlare dell’abnegazione dei devoti verso la Divinità: la vera abnegazione è quella del cortigiano verso il proprio padrone; guardate come si umilia in sua presenza! Diventa pura macchina, o meglio, si riduce a niente; attende di ricevere da quello la propria essenza, cerca di individuare nei suoi tratti caratteri che lui stesso deve assumere; è come una cera malleabile pronta a ricevere qualsiasi calco le si voglia imprimere (…).
Un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione personale ma solamente quella del padrone o del ministro, e deve saperla anticipare facendo ricorso alla sagacia; ciò presuppone un’esperienza consumata e una profonda conoscenza del cuore degli uomini.
Un buon cortigiano non deve mai avere ragione, non è in nessun caso autorizzato ad essere più brillante del suo padrone o di colui che gli dispensa benevolenze, deve tenere ben presente che il Sovrano e più in generale l’uomo che sta al comando non ha mai torto.
Il cortigiano ben educato deve avere uno stomaco tanto forte da digerire tutti gli affronti che il suo padrone vorrà infliggergli (…). Per vivere a Corte è necessario un dominio assoluto dei mucoli facciali, al fine di ricevere senza battere ciglio le peggiori mortificazioni. Un individuo rancoroso, dal brutto carattere o suscettibile, non riuscirà mai a fare carriera.
La nobile arte del cortigiano, l’oggetto essenziale della sua cura, consiste nel tenersi informato sulle passioni e i vizi del padrone, per essere in grado di sfruttarne il punto debole: a quel punto sarà certo di detenere la chiave del suo cuore. Gli piacciono le donne? Bisogna procurargliene. E’ devoto? Bisogna diventarlo o fare l’ipocrita. E’ di temperamento ombroso? Bisogna instillargli sospetti riguardo a tutti coloro che lo circondano. E’ pigro? Non bisogna mai parlargli di lavoro; in poche parole, lo si deve servire secondo i suoi desideri e soprattutto adularlo continuamente. Se è uno stupido non si rischia nulla a prodigargli lusinghe anche del tutto ingiustificate, ma se per caso fosse arguto o di buon senso – si tratta in verità di un’eventualità remotissima - sarebbe opportuno prendere qualche precauzione.
Il cortigiano deve ingegnarsi per essere affabile, affettuoso e educato con tutti coloro che possono aiutarlo o nuocergli; deve mostrarsi arrogante soltanto con chi non gli serve a niente. Deve conoscere a memoria il prezzo di tutti quelli che incontra, deve salutare con reverenza la cameriera di una Dama in auge, chiacchierare amichevolmente con il portiere o il valletto del ministro, accarezzare il cane dell’alto funzionario, inoltre non gli è permesso distrarsi un attimo, la vita del cortigiano è un perpetuo impegno (…).
I cortigiani non trovano nulla di meschino in tutto ciò che fanno per il Principe; che dico? Si inorgogliscono nell’esercizio dei più infimi incarichi presso l’adorata persona; giorno e notte aspirano alla gratificazione di essergli utile; lo scortano, si atteggiano a intermediari compiacenti di ogni suo piacere, si attribuiscono le sue sciocchezze o si affrettano ad approvarle; in poche parole, il buon cortigiano è talmente assorbito dall’idea del dovere, che spesso si sente fiero nel compiere atti disprezzati anche dal più leale servitore. Lo spirito del Vangelo è l’umiltà; il Figlio dell’Uomo ci ha detto che chi si esalta sarà umiliato; il contrario è altrettanto vero, e la gente di Corte segue alla lettera tale precetto: smettiamo di sorprenderci che la Provvidenza ne ricompensi generosamente la duttilità, e che dalla loro abiezione conseguano onori, ricchezza e stima da parte degli Stati bene amministrati.


-Paul Heinrich Dietricht Holbach (nome francesizzato in Paul Henri Thiry d’Holbach, 1723-1789)
-Questo opuscolo, il cui titolo originale è « Essai sur l’art de ramper, à l’usage des courtisans. Facétie philosophique tirée des manuscrits de feu monsieur le Baron d’Holbach » venne pubblicato postumo nel quinto tomo della « Correspondance littéraire, philosophique et critique, adressée à un souverain d’Allemagne » di F.M. Grimm e Diderot, quest’ultimo grande amico del Barone d’Holbach, che aveva nascosto tra le sue carte queste « facezie filosofiche ».

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